Urania Ligustica

Delizie in villa

Francesco Maria Accinelli

Compendio delle storie di Genova (1851) 1

Delizie in villa


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Frontespizio



   1679. Godeva il porto di Genova di un possesso immemorabile di esser salutato con quattro tiri da tutte le galee delle [<127-128>] squadre reali, e da ogn'una di esse galee nell'entrarvi, e con tale fondamento, che intesasi da Filippo IV Re di Spagna l'innovazione fattane da' Francesi nel 1663, desiderando i suoi comandanti di sapere le sue regie intenzioni sopra questo incidente, rispose che continuassero come prima col buon esempio, e non seguire il contrario. Trovossi in obbligo la Repubblica di vedersi rapire questo possesso dalle sole galee del Cristianissimo, con pretesto di nuovo cerimoniale. Pretese il Re che il suo reale stendardo fosse per il primo salutato, anco nell'ingresso nel porto, condiscese a' voleri del Re esposti con minaccie, purché S. M. esigesse da altri Prencipi uguali a lei lo stesso trattamento.

Comparsa la squadra del Re comandata da Monsiù di Vivonne, ebbe dalla città l'anticipato saluto, ma inteso che dal porto di Villafranca non l'aveva ottenuto, e che il Re avesse esentato dall' anticipazione del saluto la Religione di Malta, vedendo la Repubblica che la Francia non esigeva da porti di altri Prencipi ciò che pretendeva dal suo, condizione per la quale rientrava nel suo incontrastabile diritto, alla comparsa di ventisei galee comandate dal signore di Mans sull'altura del porto di Genova, gli fu differito il saluto, ma esse avanzatesi sul borgo di Sampierdarena cannonarono rabbiosamente gli edifizj di quel maestoso luogo, e convenne sostenere lo sfogo della prepotenza, e partirono. Passate poi sul luogo di S. Remo furono con amico cannone salutate, ma esse in vece di salutare, cominciarono a cannonare quel borgo, e prese dieci barche le condussero in Francia. Spedì la Repubblica ambasciatore al Re per dargli ragione del differito saluto, ma quegli alterò sempre più le sue pretensioni, né valsero le calde preghiere di Papa Innocenzo XI per rimuoverlo dalle rappresaglie.


   1680. Ciò che non potè il Papa procurò Nicolò de' Mari Inviato straordinario mandato dalla Repubblica al Re [di Francia], e l'ottenne; ma nello stesso tempo mandò il Cristianissimo Monsiù di Damcourt a Genova, con ordine di darle contezza del di lei stato, rendite, forze per mare e per terra, spese, armamenti, discordie fra nobili e popolo. Eseguì questi il ministero, e conchiuse la relazione con dirgli – che Genova doveva esser considerata come porta d'Italia, e che, chi se ne rendesse padrone avrebbe la chiave, e sarebbe il depositario della pace e della guerra di quella bella parte d'Europa, e che era [<128-129>] assioma di Filippo II che biasimava Carlo V suo padre di non averla soggiogata, mentre quello sarebbe stato il mezzo di rendersi padrone di tutta l'Italia. Il Conte Sinibaldo Fiesco, che dopo la sua ambasciata per la Repubblica a Costantinopoli, carico di debiti erasi rifugiato in Francia, ed ivi fattosi dal Parlamento di Parigi naturalizzar francese, fece istanza al Re per la restituzione de' suoi beni, stati confiscati dall'Imperatore e dalla Repubblica, dopo la congiura del conte Luigi suo ascendente. Spedì la Repubblica il marchese Grimaldi per disingannare il Re, ma questo altra ragione non intendeva che quella della sua potenza resasi formidabile a tutta l'Europa.


   1682. Risiedeva presso la Repubblica per ministro del Cristianissimo il marchese Giustiniano, vi sostituì Monsiù di Sant'Olon per suo inviato, alla cui comparsa si viddero grandi innovazioni; per far nascer discordie fra la Repubblica e la sua Corte, pretendeva molte cose che offendevano la sovranità della Repubblica, mai, non che da' suoi predecessori, ma neanco da inviati di altri Potentati pretese. Di 12 persone che aveva al suo servizio, ne diede la lista di 57, gente omicidiaria, complice di ogni iniquità, proteggea sicarj, la di lui casa si fece asilo de' maggiori assassini; le soperchierie, i rubamenti, le frodi di gabelle erano il meno: proteggeva chi falsificava biglietti di seminario: le doglianze del Governo a nulla servivano, anzi macchinava continue imposture da suggerire al Re contro la Repubblica.


   1683. Per impedire le piraterie degli Algerini, ed altri corsari affricani, che per i danni causati loro dalla Francia l'anno scorso cercavano di risarcirsene contro le nazioni meno potenti, onde i popoli della Repubblica necessitati al commercio ed alle pesche, più di tutti ne sentivano il danno, si trovò in obbligo la Repubblica di armar quattro galee con ciurma di libertà, ed accrescerle al suo stuolo. Vedendo il Sant'Olon questa occasione propizia a' suoi disegni, fece comprendere a' ministri del suo Re, che la Repubblica istigata dal Governator di Milano, e dall'inviato del Cattolico, avesse con questo armamento presi impegni con gli Spagnuoli in pregiudizio della Francia, e fece una relazione al Cristianissimo concepita in tal modo, che rappresentò lo stato allora della Repubblica, la maniera di annichilarla, le dimande da farsele, la strada di levarle il commercio, di attaccarla per mare prima per blocco, e poi con l'assedio di terra, ordinare contro la nazione le rappresaglie, [<129-130>] gli attacchi da farsi dalla parte del Bisagno e Polcevera, e la forma di facilmente impossessarsene, ed il vantaggio che riceverebbe la Francia da tal conquista. Di questa relazione, di cui ne son pieni i gabinetti de' Prencipi, se ne ebbe copia da Parigi, e fa maraviglia non che orrore l'averne poi il Re eseguito a puntino tutto il contenuto. Onde cominciò a negare al marchese Marini inviato della Repubblica l'accesso alla corte, a pretendere dalla Repubblica un magazzeno per i sali in Savona da condursi al Monferrato, sollecitar giustizia per i beni confiscati al conte Fieschi, ed il disarmo delle quattro galee; né valse alla Repubblica scusa alcuna, il pregiudizio che le veniva fatto con queste dimande: s'impegnò il Pontefice ed il Re d'Inghilterra per la moderazione, ma istando le suggestioni del Sant'Olon e di Monsiù le Noble procuratore del Parlamento di Metz (ex relat. postea impress. Parisiis an. 1685. pag. 64. 73. 81. et 106.) che dopo aver segnato il modo di soggiogarla gli disse – Genova e Marsiglia unite sotto il solo stendardo di Fiordigigli darebbero legge a Cadice, ai Dardanelli, conterrebbero la Barberìa in uno sforzato rispetto, e farebbero tremare sino il Sultano nel serraglio di Costantinopoli: faccia il cielo che un Monarca sì invincibile unisca alla sua corona questo prezioso fiore. Onde insinuarono al Sovrano quella massima sempre generale al mondo di creder giustizia quanto il potente desidera.


   1684. Richiamato dunque Luigi il marchese Sant'Olon che risiedeva presso la Repubblica, ordinò le rappresaglie sopra la nazione genovese. Fra le prede da' Francesi fatte fu la prima la nave ricchissima del capitano Marc'Antonio Carattino, e fece avanzare armata comandata dal marchese di Segnelai numerosa di 160 vele, montata dalla maggior nobiltà di Francia, con più di 8000 soldati, 14 grossi vascelli da guerra, 20 galee, 10 palandre, ciascuna delle quali portava due mortari da bombe, e 27 tartane, 8 filuche e 70 altri bastimenti da remo, e 2 brulotti da fuoco.

Comparsa questa a' 17 maggio avanti il porto di Genova, diede di subito il Senato gli opportuni ordini per la difesa, provvide i posti, ed acciò non principiasse l'armata le ostilità di notte, come ne aveva l'ordine per maggiore spavento dei cittadini, fece il Senato precedere fumata, e sparo senza palla; ma non iscostandosi le palandre, si scaricò l'artiglieria della città ostilmente contro delle medesime, le quali allora cominciarono a vomitare da' loro mortari le bombe, e continuarono [<130-131>] con fuoco incessante; dopo quattro giorni mandò il marchese di Segnalai Monsiù di Bonrepas Intendente dell'armata nel porto; introdotto, dimandò al Governo di rimetter le quattro galee di nuovo armate nelle mani del Re, pagargli 600000 lire per una parte della spesa dell'armata, e di spedire quattro senatori al Re per supplicarlo di dimenticarsi del passato, e dar contrassegni di acconsentire alle sue voglie; ma il Governo e la Giunta di guerra gli fecero per suoi deputati rispondere – che non aveva data a S. M. Cristianissima occasione nessuna di fargli risentire effetti così terribili del suo sdegno, che non riconoscendosi reo di offesa alcuna contro di esso (in testimonio di che chiamava il cielo e la terra) e dovendo alla propria innocenza la costante risoluzione di farla conoscere al mondo, si disponevano i cittadini di vedere piuttosto desolata la loro città dalla cima a' fondamenti, che di rendersi sospetti di alcun mancamento commesso con abbracciare una volontaria soddisfazione che li farebbe credere colpevoli: che se il Cristianissimo pensava a privarli della loro libertà, ella essendo il nume adorato della loro Repubblica, si protestavano tutti profondere volentieri la vita per la sua conservazione, e di voler morire con essa in mezzo del fuoco e delle rovine. Intesa dal marchese tale risposta, ricominciò il diluvio del fuoco con maggior furia.

Fece l'armata di notte tempo due sbarchi, uno in Sampierdarena comandato dal Duca di Mortmart con 2000 soldati, e 1500 uomini della guarnigione de' vascelli sotto il cavaliere di Tiorville condottivi da 100 tra scialuppe e fìluche, con provvisione di pane per tre giorni, accompagnate da nove tartane, sei cariche di cannoni, petardi, mantelletti, gabbioni, sacchi di terra, scale e zappe, e tre cariche di scuri, bombe, barili di polvere, e palle incendiarie, e 5 ingegneri dell'armata. Sostenuto lo sbarco dalla prora di quattordici galee che la spiaggia bersagliavano, ebbe il bramato effetto lo sbarco, ma infelice l'esito; accorsi i paesani sotto buona scorta di milizie al ricevimento de' Francesi, di tal fatta gl'investirono, e con tanta furia di archibugiate, che dieronsi a precipitoso rimbarco, lasciando quantità di morti sopra la spiaggia, tutto il bagaglio, strumenti, macchine da guerra e munizione, 60 ufficiali morti, fra' quali il cavalier di Lerj capo di una squadra dello sbarco, il conte di Tiorville, i marchesi di Mongon e la Riviere, con più di 150 feriti, onde la stessa notte vide il principio, ed il fine, dell'impresa.

Alla Foce [<131-132>] fu l'altro sbarco comandato dal marchese d'Amfreville capo di squadra de' vascelli, scese a terra in Bisagno la truppa seguitata da' più bravi uffiziali dell'armata, ma avanzandosi nel luogo fu ricevuta con un fuoco incessante da' paesani, ed obbligata a procurarsi con la fuga lo scampo, e precipitoso rimbarco. Il marchese d'Amfreville che dava saggio di valoroso assalente se ne fuggì con una moschettata nella coscia, e monsiù della Motta comandante del vascello il Capace con alcuni bravi della sua brigata inoltratosi in un palazzo tanto suntuoso quanto ben difeso, voleva alzare un'insegna del Re per chiamar soccorso dall'armata: assaltato da' paesani non volle cedere l'insegna, vi perdè con 15 uffiziali la vita, e i restanti la libertà. In questi due sbarchi si ha dalle relazioni francesi, che vi restarono 60 uffiziali di rango morti e 156 feriti, non facendo conto de' subalterni e comuni, dei quali restarono le spiagge e le vicine ville coperte.

Continuò il getto delle bombe, e di già cominciavasi a render famigliare il pericolo, con ostare opportunamente a' progressi del male, quando finalmente dopo avere dai 17 maggio sino alli 28 scaricate sopra la città (scrivono le relazioni francesi) 13300 bombe, cominciarono i Francesi a ritirare le loro palandre per aver terminate le provvigioni che avevano, ed unite all'armata ripassarono in Provenza.

Non restò il Governo assicurato da questa partenza, anzi dubitando si fosse l'armata andata a provvedere di nuove munizioni, sforzato dalla naturale inclinazione alla difesa propria, applicò per mare e per terra con ogni premura ad accrescerla per il mantenimento della sua libertà. Monsignor Ranucci nunzio apostolico alla corte del Cristianissimo, molto s'impegnò ad istanza del santo Pontefice Innocenzo XI per l'aggiustamento di S. M. con la Repubblica, ma bollendo nel di lui animo sempre più lo sdegno contro l'innocente Repubblica, a nulla valsero le premure del santo Padre, anzi fece il Re veleggiare di nuovo sopra il porto di Genova la sua armata, e solo si viddero esposti dal Re alla medesima per rimettersi nella sua grazia i noti articoli di licenziare le truppe spagnuole, la missione del Doge con quattro senatori a Parigi, il disarmo delle quattro galee armate di nuovo, il pagamento di scudi cento mila at conte Fieschi per saldo di ogni sua pretensione, e che il Re avrà a cuore di fare al Doge ed ai senatori il più favorevole ed onorevole accoglimento che possa a' medesimi dar segno [<132-133>] della di lui bontà, e certificarli nuovamente della sua buona volontà verso di loro.


   1685. Impegnò la Repubblica il Re Carlo d'Inghilterra, replicò le sue premure presso al Pontefice per procurarle col Cristianissimo moderazione al rigore degli articoli, ma né l'uno né l'altro vi riuscì, anzi minacciando il Re nuovi armamenti per l'eccidio della Repubblica, pretese di più di voler 100000 scudi la settimana dalla medesima per le spese della sua flotta ed armata, fino a che stessero i Genovesi nell'irresoluzione. Replicò il santo Pontefice al Cristianissimo, che a suo riguardo rimettesse l'andata del Doge in Francia, fecegli risposta il Re: che impegnato ne' suoi risentimenti non poteva più senza diminuzione del proptio onore accomodarsi a compiacere sua Santità su questo punto; e fece di subito affigere in Torino e Casale invito in istampa per contrattare co' suoi ministri la provvista di un suo esercito in Italia di viveri e munizioni e carri; quindi affacciandosi agli occhi della Repubblica il terrore di due armate di un Re tutto orgoglio e per tutto vittorioso per assalirla, vedendosi disuguale di forze, dagli Spagnuoli poco assistita, coll'impossibilità del soccorso che sperar poteva dall'Imperatore travagliato da' Turchi nell'Ungheria, sulla certezza che nel trattato di triegua conchiuso in Ratisbona li 10 agosto 1684 tra la Francia, Spagna, e l'Imperatore e Collegati si era in un articolo separato riservata il Cristianissimo la facoltà di esigere dalla Repubblica per la strada dell'armi ogni soddisfazione, trovossi in obbligo il Governo di subir quella legge che la prepotenza di un Re vittorioso le prefiggeva, piuttosto che mettere in azzardo la pubblica libertà con la totale rovina della sua metropoli.

Partirono dunque a' 25 aprile il Doge Francesco Maria Lercaro co' senatori Gioannettino Garibaldo, Agostino Lomellino q. Giacomo, Paris Maria Salvago, e Marcello Durazzo q. Geronimo con nobile sèguito di cavalieri genovesi alla vòlta di Francia, il loro equipaggio di circa 100 persone.

Fu fissata l'udienza del Re a' 15 maggio: gl'introduttori M. di Bonoglio, e Giuriaud andarono a ricevere il Duce con una carrozza del Re, ed altra di madama la Delfina; nella prima entrarono il Doge e i Senatori, nella seconda il marchese Marini inviato della Repubblica, e due cavalieri camerata del Doge: seguitavano tre carrozze del Doge ricchissime, e di ogni magnificenza, con la sua arma sormontata da corona reale chiusa a cagione della sovranità di Genova, e del regno [<133-134>] di Corsica soggetto alla Repubblica, sopra della corona un globo con in cima una croce; (Mercur. Galant. Franc. 1685 pag. 219) la prima di esse era tirata da otto cavalli leardi, le altre da sei. Seguivano due carrozze dell'inviato Marini assai superbe, quelle di M. Bonoglio, e dieci altre, in tutte in numero di dieciotto, ove erano altri gentiluomini d'ambasciatore, tutte tirate a sei, dodeci paggi a cavallo riccamente montati, 60 staffieri, e 20 altre livree di scarlatto trinate d'oro fiancheggiavano le carrozze.

Fu il Doge a pie' delle scale del real palazzo ricevuto dal maresciallo Duca di Duras capitano delle guardie del Re, vestito in abito nero di complimento all'italiana. Avendo questi profondamente inchinato il Duce si avanzò a facilitargli il passo con le guardie sì delle porte, che del corpo sull'armi in doppia ala sino all'anticamera e galleria, ove stava il Re assiso sopra di un trono d'argento alzato solamente due gradini, d'ivi sino alla fine della gallerìa tra l'ala doppia di Prencipi e cavalieri, alla destra del Re mons. Delfino, ed il Duca di Maine, alla sinistra i Duchi d'Orleans, e di Sciartres, ed altri Prencipi. Non sì tosto vide S. M. il Duce e senatori che si alzò in piedi col cappello alla mano, e questi gli fecero inchino: giunto il Duce in vicinanza del trono, salutato il Re che continuava in piedi col cappello alla mano, si coprì; si copri il Re, e voltatosi il Doge dall'uno e l'altro lato per vedere se i senatori erano a' suoi fianchi, si levò di nuovo la berretta, come fece il Re il cappello, montò il Duce il primo gradino del trono, ed essendosi l'uno e l'altro ricoperti, espose il Duce con ottime ragioni e maniere la cagione della sua andata, lodò la Maestà del Re, espose il rispetto che si gloriava di professare alla sua Corona la Repubblica, il disgusto che aveva di aver incontrato il suo dispiacimento, e poca soddisfazione nelle sue contingenze: che la Repubblica avrebbe la mira di mantenersi la sua grazia, e che si sarebbe applicata con ogni sollecitudine per procurarsela, e che a questo fine gli aveva mandato il suo Doge, come capo, e quattro suoi senatori per renderla certa dell'alta stima che faceva della sua regia benevolenza; l'accertò della fiducia che aveva, che S. M. avrebbe riguardato tali sentimenti con singolarità d'animo generosissimo, e gliene avrebbe dati i più veri contrassegni. Gli rispose il Re che provava dispiacere di quanto era succeduto, che poteva il Doge assicurare la Repubblica della sua amicizia, e della stima che faceva di essa, e che in tutte le occasioni le avrebbe dati [<134-135>] contrassegni del suo affetto, e cooperato a' di lei avanzamenti, promettendosi che la Repubblica, avrebbe anco corrisposto dal canto suo. In seguito fece il Re al Doge un espressione obbligante della stima che faceva della sua persona e del desiderio d'aver occasioni di renderle qualche servizio il che estese sul fine anco a' senatori, e fu osservato che stava il Re sempre in piedi.

I signori Bonoglio e Girami introduttori degli ambasciatori ricondussero il Duce, senatori, nobili, e tutta la comitiva nel quarto preparato per un lautissimo banchetto imbandito, a proporzione della qualità de' convitati, di diverse tavole. Il Duce e senatori nella prima, nella seconda i nobili, e le altre secondo i diversi ranghi; fu osservato che il Duce, deposto l'abito cerimoniale, aveva un abito di color violetto, e stava a sedere su d'un fonteglio: Molte dame delle principali della corte, e delle più qualificate erano a veder pranzare il Duce, e gli facevano corona all'intorno, quando presentatosegli il desert, le regalò dei più bei frutti della tavola. Lo stesso Re, durante il pranzo, parlò con molta lode del Doge (Merc. Franc. 1685 fol 247) in presenza della maggior parte della corte, trovollo d'un'aria assai civile e di molto spirito, con presenza e portamento da Prencipe, sostenuto con una grandezza senza abbassamento, degna del personaggio che, come capo della Repubblica, rappresentava, e riconosciuto perciò per tale con ogni stima ed applauso. Fece in appresso il Doge una visita privata al Re, stette coperto con esso in discorso con dimostrazione di particolar gradimento, lo invitò ad essere spettatore de' giuochi maravigliosi dell'acque ne' suoi giardini reali, del gabinetto, e di tutti gli appartamenti della scuderia, menageria, parco, Trianon, e Versaille ov'erano ufficiali e gentiluomini destinati a fargli vedere ciò che concerneva la loro carica. Gli fece S. M. superbi regali, ed a' 16 maggio si congedarono, ed accolti per tutto il regno con reali magnificenza passati in Provenza, preso l'imbarco su due galee della Repubblica, giunsero a' 29 giugno a Genova; e terminato nel mese seguente il Duce Lercaro il suo biennio, fu eletto Duce Pietro Durazzo q. Cesare. Nominò il Re per suo inviato in Genova M. d'Abbeville.




1 F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova dalla sua fondazione sino all'anno 1776, vol. 1 (Genova, A. Lertora, 1851), pp. 127-135 Link esterno Google libri (per Bayerische Staatsbibliothek).

Il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra la Francia e Genova deriva dal declino della Spagna e data ben prima del 1679: si rimanda allo stesso Accinelli e a saggi più recenti per approfondire i prodromi del disastro.



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