Urania Ligustica

Delizie in villa

Anton Giulio Barrili

Lutezia (1879) 1

Delizie in villa


Indicatore di completezza


XVIII.

Una selva di spruzzoli. – Recessi ombrosi. – La casa di un egoista.
Irritazione di nervi. – Correzioni storiche a un cattivo dipinto.
Anna d'Austria. – Un bel madrigale. – Ricordo d'amore, raggio di sole.


     Me ne andrò da Versaglia senza aver visti i celebri zampilli e getti d'acqua, a cui si dà moto soltanto in certe occasioni solenni, e che vi trasformano i laghi di questa villa in una selva di spruzzoli. Ma anche senza questi giuochetti, i laghi di Versaglia sono belli a vedersi, coi loro cavalli marini e le loro divinità mitologiche folleggianti a fior d'acqua. Abbondano i recessi solitarii dottamente architettati e rivestiti di borracina, che invitano a sedere, anzi meglio, a sdraiarsi. Raccomando il bosco d'Apollo, una specie di Elicona, col suo fonte [<172-173>] Castalio, presso una grotta, ove Febo sta a chiacchiera con le Muse, all'ombra di cento famiglie di erbe e d'arbusti, i cui rami spenzolanti vi dànno un senso di grata frescura. Io ho sentito una voglia matta di avere una palazzina in quel bosco e davanti a quella grotta; la qual cosa dimostrerà una volta per tutte ai malevoli che io non sono un uomo di pessimo gusto. Soggiungo per altro che, se non mi permettessero di fabbricare la palazzina nel bosco d'Apollo, mi contenterei di abitare mille passi più in là, nel piccolo Trianon, e alla più trista nel grande. Perchè son due, i Trianon, non troppo distanti l'uno dall'altro; e sono due, perchè non sono tre. Infatti, il loro nome ve lo dice: tria non.

     Quanto al palazzo, vedete la mia modestia, non mi sentirei di abitarci. Eppure, se c'è palazzo fatto a posta, direi quasi tagliato alla misura d'un uomo solo, è proprio questo. Nella sua sterminata grandezza si sente e si vede il carattere personale, la boria egoistica del suo fondatore, e questo sentimento, questa apparenza, non sono punto cancellati dalla trasformazione superficiale del palazzo in Museo e dalla ospitalità accordata «a tutte le glorie della Francia.»

     Vi ho parlato di quelle grandi tele che decorano, o deturpano, secondo i gusti, le pareti di troppe sale, ripetendo a sazietà, anzi fino alla nausea, le [<173-174>] dure fattezze e gli atteggiamenti da ballerino del gran re Luigi XIV. Ce n'è uno, tra questi, che m'ha urtato maledettamente i nervi. Immaginate per fondo del quadro una sala, che riconoscete subito, per averla veduta lì presso e averla sentita chiamare la grande galerie; da un lato è Luigi sul trono, seduto, col cappello in testa, la mazzetta tra le dita e le braccia comodamente appoggiate. Principi e grandi signori stanno in piedi ai due lati del trono. Nel mezzo del quadro è un vecchio, vestito d'un'ampia toga, che, già saliti i tre gradini del palco, s'inchina profondamente, col berretto nella mano sinistra e accostandosi la destra al petto, quasi in atto di picchiare e di dire mea culpa. Dietro a lui, ma ancora sul pavimento della sala, quattro personaggi in toga, e nello stesso atteggiamento del primo, su cui sembrano modellarsi intieramente. Dietro a loro un mastro di cerimonie; nel fondo cinque o sei figure di cortigiani, che ci sono probabilmente come saggio d'un numero maggiore, affollato nella gran sala dei ricevimenti reali.

     A tutta prima non mi ero commosso. Ne avevo veduti già tanti, di quei quadri, neppure commendevoli come opere d'arte, che, guardatolo appena alla sfuggita, muovevo già il passo per seguitar la mia strada. Ma il cicerone proprio allora mi disse: – Le doge de Gênes venant faire ses excuses....[<174-175>]

     Rizzai la testa, trattenni nelle dita la voglia d'uno scappellotto, che avrebbe messo a soqquadro il palazzo e forse m'avrebbe fatto accoppare da tutte le glorie della Francia, mi volsi di nuovo al quadro e guardai la scena che vi ho brevemente descritta. Molte cose mi dispiacevano nel dipinto; ma erano storiche e ci voleva pazienza. Per altro, una non era storica, e mi parve sconveniente che il gran re l'avesse lasciata dipingere da' suoi impiastratori di tela. Che cosa significava quel re seduto e col cappello in testa, davanti al doge di Genova, che aveva salito in quel punto i tre gradini del trono? Apro le memorie del tempo, scritte in Francia, da francesi, e trovo che, alla vista del doge, il re si coperse e invitò il doge a coprirsi; solo i quattro senatori stettero a capo scoperto. Le memorie aggiungono che il doge fece un discorso giusta i termini del trattato; che il discorso fu umile, ma colui che lo pronunziava fu costantemente dignitoso e fiero; che solo quando ebbe finito di parlare si scoperse il capo, salutando, e gli fu risposto con pari cortesia.

     Apro le storie genovesi e trovo quest'altro racconto, che ben s'accorda col primo. Passati il doge e i senatori da Parigi a Versaglia, furono sul principio introdotti nell'appartamento degli ambasciatori; quindi, vestiti delle toghe che solevano portare [<175-176>] nelle occasioni solenni, salirono, con cento cavalieri del loro seguito, per la gran sala, ove facevano spalliera i cento svizzeri della guardia del corpo, armati d'alabarde. In cima della scala, quattro gradini a basso (notate esattezza minuziosa del cronista!), si trovò il maresciallo duca di Duras, capitano della guardia del corpo, vestito «in abito nero di complimento, all'italiana,» il quale, avendo inchinato il doge, si avanzò a facilitargli il passo in mezzo alla moltitudine dei cortigiani, che ingombrava le scale, gli atrii e l'appartamento regio. Entrato il doge nella sala, ov'erano sotto le armi i moschettieri, proseguì per diverse stanze fino alla grande galleria, a capo della quale stava il re, con monsignore il Delfino a destra e il duca d'Orléans a sinistra.

     «Era la galleria, per quanto capace e vasta, così piena di personaggi e di nobiltà dell'uno e dell'altro sesso, che non fu possibile al doge e ai senatori di arrivare così presto alla presenza del re; onde più volte il re stesso, levatosi in piedi, con la mano e con la voce fece segno che s'aprisse la strada, nè bastando questo, calò i due gradini del trono e fece mostra di battere con la picciola canna che aveva in mano. Ma essendo finalmente il doge arrivato in vicinanza del trono, dopo di aver salutato il re, che lo attendeva in piedi, si coprì. [<176-177>] Indi il medesimo doge, voltatosi dall'una e dall'altra banda per vedere se i quattro senatori erano a' suoi fianchi, si levò di nuovo la berretta, come fece il re il cappello; ed essendosi l'uno e l'altro ricoperti, il doge con pari energia e franchezza proferì il seguente discorso.»

     Ommetto il discorso e la risposta del re, ommetto i complimenti fatti separatamente da questo ai quattro senatori; ommetto le nobili accoglienze avute dai poveri, ma non umili, inviati di Genova, presso i principi e le principesse del sangue. Riferirò soltanto che Luigi XIV «rimase così preso dalle maniere del doge (Francesco Maria Imperiale Lercaro) e insieme così soddisfatto dell'abbondante miniera di scienze varie, speculative e pratiche, che trovò in lui, che fu udito più volte commendarlo tra' suoi; e dire, in riguardo della straordinaria franchezza mostrata nella prima udienza dal medesimo doge nel profferire l'orazione, che «egli aveva parlato con riverenti espressioni, ma con aria e portamento da principe.»

     Così Filippo Casoni, che attinse alle fonti vive. Un altro manoscritto di quel tempo narra che il trono era «alzato solamente di due gradini» e aggiunge che essendo ito il doge a deporre l'abito cerimoniale, e avendo indossato un abito color violetto, sedette a mensa «su d'un fonteglio.» Altri, [<177-178>] nello stile d'allora, avrebbe voltato il francese fauteuil in «sedia d'appoggio.» Ma non badiamo a queste minuzie e seguitiamo col manoscritto. «Molte dame, delle principali della Corte e delle più qualificate, erano accorse a veder pranzare il Duce e gli facevano corona all'intorno, quando, essendogli presentato il dessert, le regalò dei più bei frutti della tavola. Fece in appresso il Duce una visita privata al re; stette coperto con esso in discorso, con dimostrazione di particolar gradimento.»

     In Parigi e in Versaglia il doge Lercaro e i senatori, che furono Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellino, Paride Salvago e Marcello Durazzo, godettero di quei divertimenti «che sogliono dare ai forestieri sì gran città e sì gran corte» e con speciale invito del re furono spettatori «dei giuochi meravigliosi delle acque ne' giardini reali.»

     Il re Luigi (sono gli storici di Francia che lo dicono) trattò il doge Lercaro con la squisita cortesia di cui si faceva una legge. I ministri Louvois, Croissy e Seignelay gli si mostrarono più arcigni; la qual cosa fece uscire il Lercaro in questa bella sentenza:

     – Il re, con le sue oneste accoglienze, ruba ai nostri cuori la libertà; i suoi ministri ce la rendono. –

     E qui viene a taglio di ricordare che il marchese [<178-179>] dei Seignelay, avendo chiesto a Francesco Maria Imperiale Lercaro che cosa trovasse di più curioso a Versaglia, ne ebbe la memoranda risposta:

     – C'est de m'y voir!

     Raccontano a Genova che la frase fosse detta dal Lercaro ad un senatore della sua comitiva; e ciò forse per potersi servire del vernacolo genovese, che la rende in due monosillabi: mi chi. Ma gli scrittori francesi, a cui pare abbia fatto senso, la vogliono detta nella loro lingua, e il citare che fanno il Seignelay ad interlocutore del doge, m'induce a credere che abbiano ragione loro. Il marchese di Seignelay era stato col Duchesne al bombardamento di Genova, ed era il figlio di quel Colbert, che l'aveva a morte coi genovesi, per ragioni di rivalità commerciale. Con lui, nemico garbato, ma nemico riconosciuto, la malinconica ed altera risposta del genovese era proprio a suo luogo.

     È piuttosto fuori di luogo la lunga narrazione del fatto. Ma il lettore mi renderà giustizia in questo: che io, per amore di brevità, mi sono astenuto dal raccontare le cause, o per dire più esattamente i pretesti della guerra. Mi premeva soltanto di mettere in chiaro che quel dipinto orgoglioso è in qualche sua parte bugiardo. Ciò non muta il fatto delle scuse, non tempera il dolore del sopruso patito, [<179-180>] lo so; ma infine, se è permesso ai popoli di essere gli artefici delle proprie disgrazie (e Genova, come tante altre città italiane, non è stata per questo riguardo con le mani alla cintola), è bello di conservare una certa maestà nella sventura e di meritare l'ammirazione degli stessi nemici. Specchiamoci in questo esempio, ma sopratutto adoperiamoci in guisa da non dover neanche lasciare di queste mezze consolazioni ai nepoti.




1 A. G. Barrili, Lutezia (Milano, Fratelli Treves, 1879²), pp. 172-180 Link esterno University of Toronto e Internet Archive; scheda bibliografica Link esterno OPAC SBN.

È qui omessa la trascrizione del resto del capitolo.



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