Urania Ligustica

Delizie in villa

Filippo Casoni

Storia del bombardamento di Genova
nell'anno MDCLXXXIV (1877) 1

Delizie in villa


Indicatore di completezza


Il doge e i senatori a Parigi e Versailles


     Giunto il doge e senatori a Parigi, ivi si trattennero per alcuni giorni a prendere respiro per la stanchezza del viaggio, e nelli 15 di Maggio del 1685 ebbero l'udienza del re. Per tale effetto col loro seguito, che era di circa cento persone parte a cavallo e parte nelle carrozze, passati il doge e i senatori da Parigi a Versaglies, furono sul principio nell'appartamento degli ambasciatori introdotti, ove si trattennero sino [<257-258>] a che fu fatto loro sapere che il re li attendeva. Quindi vestiti delle toghe che sogliono in Genova portare nelle funzioni, salirono col loro seguito per la gran scala, ove erano i cento svizzeri della guardia del corpo del re, armati d'alabarde. In cima della medesima scala quattro gradini a basso si trovò il maresciallo duca di Duras, uno de' capitani della guardia del corpo del re, vestito in abito nero di complimento all'italiana, il quale avendo inchinato il doge si avanzò a facilitargli il passo in mezzo alla moltitudine affollata, la quale ingombrava le scale, gli atri e l'appartamento regio. Entrato il doge nella sala ove erano sotto le armi i carabinieri, proseguì per diverse stanze alla gran galleria, a capo della quale stava il re sopra di un trono d'argento, con monsignore il Delfino alla destra, ed il duca d'Orleans alla sinistra. Era la galleria, per quanto capace e vasta, però così piena di personaggi e di nobiltà dell'uno e dell'altro sesso, che non fu possibile al doge ed ai senatori di poter così subito per mezzo della calca arrivare alla presenza del re; onde più volte il re stesso levatosi in piedi con la mano e con la voce fece segno che si aprisse la stradam nè bastando questo calò i due gradini del trono e fece mostra di battere con la picciola canna che aveva in mano. Ma essendo finalmente il doge arrivato in vicinanza del trono, dopo di aver salutato il re che lo attendeva in piedi si coprì; indi il medesimo doge voltatosi dall'una e dall'altra banda per vedere se i quattro senatori erano a' suoi fianchi, si levò di nuovo la berretta come fece [<258-259>] il re il cappello, ed essendosi l'uno e l'altro ricoperti il doge con pari energia e franchezza profferì il seguente discorso:

     « Sire, la mia Repubblica ha sempre avuto fra le massime radicate del suo governo, quella principalmente di segnalarsi nella somma venerazione di questa gran corona, che trasmessa alla Maestà Vostra da' suoi Augusti Progenitori, ha Ella elevato ad un sì alto grado di potenza e di gloria con imprese tanto prodigiose ed inaudite, che la fama solita in ogni altro soggetto d'ingrandire, non sarà bastevole ancora con diminuire, di rendere credibili alla posterità. Prerogative così sublimi, che obbligano qualunque stato a rimirarle ed ammirarle con profondissimo ossequio, hanno particolarmente indotto la mia Repubblica a distinguersi sopra d'ognuno nel professarlo in modo, che il mondo tutto restasse evidentemente persuaso che non vi è accidente che le sia occorso d'apprendere nè più funesto, nè più fatale che quelli, che potessero veramente offendere la Maestà Vostra. Non posso dunque adeguatamente spiegare l'estremo cordoglio cagionato nella medesima, d'aver avuto la minima cosa che sia dispiaciuta alla M. V., benchè ella si lusinghi esser ciò arrivato per pura sua disgrazia; vorrebbe nondimeno che tutto quello, che può esser succeduto di poca soddisfazione della V. M. fosse a qualsivoglia prezzo cancellato non solo dalla sua memoria, ma da quella di tutti gli uomini. Non è ella capace di sollevarsi da così immensa afflizione, sinchè non sia reintegrata nella [<259-260>] pregiatissima grazia di V. M. Per essere fatta degna di conseguirla accerta la M. V. che tutti gli sforzi delle sue più intense applicazioni e delle sue più ansiose sollecitudini, s'impiegheranno non solo per procurarne perpetua conservazione, ma per abilitarsi a meritarne ogni maggiore accrescimento; in ordine a che non soddisfacendosi di qualsisia espressione più propria e più ossequiosa, ha voluto valersi di inusitate e singolarissime forme, inviandole il doge con questi signori senatori, sperando che da tanto speciali dimostrazioni debba la M. V. rimanere pienamente appagata dalla altissima stima, che la mia Repubblica fa della sua regia benevolenza. Quanto a me, Sire, riconosco per una grandissima fortuna l'onore d'esporle questi divotissimi e vivacissimi sentimenti; ed al maggior segno mi pregio di comparire alla presenza di un sì gran monarca, che invittissimo per il suo gran valore e riveritissimo per la sua impareggiabile magnanimità e grandezza, come ha sormontati tutti gli altri de' passati secoli, così assicura la medesima sorte alla sua regia prosapia. Con sì felice augurio ho somma fiducia che la M. V., per far sempre comprendere la singolarità dell'animo suo generosisimo si compiacerà di riguardare queste rimostranze divote tanto e dovute, come parti non meno della sincerità del mio cuore che degli animi di questi signori senatori e de' cittadini della mia patria, che attendono con impazienza li contrassegni che la M. V. si compiacerà volerli dare del suo benigno gradimento. » Sino [<260-261>] a qui il doge. La risposta del re fu di avere udito il dolore e sentimento che aveva la Repubblica d'avergli dato occasione d'essere disgustato della medesima, e che egli parimente provava dispiacere di tutto ciò che era succeduto; che poteva il doge assicurare la Repubblica della sua amicizia e della stima che faceva di essa, e che in tutte le occasioni le avrebbe dato contrassegni del suo affetto anco con cooperare al di lei avanzamento; promettendosi che la Repubblica avrebbe anco corrisposto dal canto suo. In seguito fece il re al doge un'espressione generosa ed obbligante della stima che faceva della sua persona, e del desiderio d'aver occasionedi rendergli qualche servigio, il che estese sul fine anco ai senatori. Replicò il doge d'aver udito con infinito suo contento l'espressione generosa di S. M., e che doveva assicurare la medesima che nella Repubblica erano sentimenti radicatissimi d'incontrare in tutto il possibile le soddisfazioni della M. S. Al che soggiunse il re: « Poichè ci troviamo in questo stato, le cose andranno ottimamente bene e tutto il contrario del passato ».

     Terminate che ebbe il re queste parole, ciascheduno dei senatori l'inchinò a parte, e gli fece un breve complimento corrispondendo il re separatamente a ciascheduno di essi, particolarmente col marchese Paride Salvago, già conosciuto dal re nel tempo che aveva avuto l'onore di risiedere presso la M. S. in qualità d'inviato della Repubblica. Dopo queste cose partiti dalla presenza del re il doge e i senatori furono dall'introduttore [<261-262>] degli ambasciatori ricondotti alla stanza dove prima avevano riposato, ed ivi deposte le toghe godettero del lauto banchetto che lì era stato imbandito. Il doge e i senatori ed il marchese Paolo De Marini sedettero nella prima tavola, nella seconda i nobili genovesi del seguito del doge e nelle altre le genti di servizio. Al dopo pranzo avendo il doge, e senatori ripresi gli abiti di cerimonie, passarono ad inchinare prima il Delfino e poi la Delfina, la quale li ricevette in mezzo de' duchi di Borgogna e d'Angiò suoi figlioli. Indi complirono col duca e duchessa d'Orleans, e da questi principi ricevettero lo stesso trattamento che avevano avuto dal re; essendo poi passati alla visita del duca di Sciartre figliuolo del duca d'Orleans, quivi col doge coprirono i quattro senatori. La dichessa di Sciartre che in seguito fu visitata, non solo ricevette il complimento in piedi, ma si avanzò alcuni passi ad accogliere il doge; lo stesso fecero madamigella Monpensier, la gran duchessa di Toscana e la duchessa di Ghisa le quali incontrarono il doge a mezza stanza. Il duca d'Anghien, il quale in appresso fu complimentato, col duca di Borbone suo figlio incontrò il doge alla porta del suo appartamento, e i due principi avendolo messo in mezzo lo condussero nella camera del complimento, dove il doge sedette nel luogo più nobile in una sedia d'appoggio, e dal uno e dall'altro lato i quattro senatori. Terminata la visita i due principi accompagnarono il doge sino all'entrare nel loro appartamento, dal quale passò il doge a quello della duchessa d'Anghien. [<262-263>] Ritrovandosi questa a letto, inviò madamigella d'Anghien sua figlia ad incontrare il doge alla porta della camera. Terminata questa visita passarono a fare l'ultima alla vedova principessa di Conti, la quale essendo anche essa a letto accolse il doge e i senatori con la più fine maniera di stima e di gradimento. Terminati questi complimenti furono ricondotti alla sala del pranzo ove vennero di nuovo serviti con vari rinfreschi, e rimontati poscia nelle carrozze a sei cavalli si ricondussero a Parigi. Nei giorni seguenti il doge e i senatori ritornarono a Versaglies, ove il doge fece una visita privata al re, dal quale fu tenuto lungamente in discorso con dimostrazioni di particolare gradimento; rimase il re, così preso dalle maniere del medesimo, ed insieme così soddisfatto dell'abbondante miniera di scienze varie speculative e pratiche che trovò in lui, che fu udito più volte commendarlo fra li suoi, ed in riguardo della straordinaria franchezza mostrata nella prima udienza dal medesimo doge nel proferire l'orazione ebbe a dire il re, che egli aveva parlato con riverenti espressioni ma con aria e portamento da principe, e che era veramente degno del posto che occupava. In Parigi ed in Versaglies il doge e i senatori godettero di quei divertimenti, che soglion dare ai forastieri sì gran città e sì gran corte, e con speciale invito del re furono spettatori dei giuochi maravigliosi delle acque ne' giardini reali. Dopo di che il doge venne col solito seguito all'udienza per licenziarsi dal re, ed introdotto nella [<263-264>] maniera già praticata alla presenza di S. M. parlò come in appresso:

     « Sire, sono sì abbondanti e singolari le grazie, che la M. V. si è degnata di conferire nella mia persona e di questi signori senatori della mia Repubblica, che superano di gran lunga la speranza che la medesima ne avea concepito. La generosità e magnanimità, come tutte le altre virtù eroiche, che risplendono nella M. V., eccedono a tal segno la proporzione dell'umana capacità, che non è meraviglia che la mia lingua non abbia maniera di esprimere la grandezza loro. Tuttociò che io saprò rappresentare alla mia Repubblica, per quanto studio vi ponga, non ne sarà mai che una minima parte. Questo però sarà più che bastante, per obbligarla a perfettamente segnalrsi fra tutti gli altri principi nell'osservanza dovuta alla M. V., ed ad essere intenta ad osservare il pegno preziosissimo della grazia, che con tante benignità si compiace di darle, e siccome il possesso di tutto ciò che abbiamo al mondo di più prezioso, è sempre congiunto a qualche ansioso timore di perderlo, la mia Repubblica per il contrario, sicurissima di non dover mai fare cosa alcuna da sè che possa attirarle una sì estrema disgrazia, altro non avrebbe da temere, senonchè le sue rette intenzioni ed operazioni sincerissime potessero comparire alla M. V. stante la lontananza, con faccia diversa da quella che portano in sè medesime, se dall'altra parte non fosse affidata che l'occhio perspicace di V. M., penetrando nel di lei cuore dissiperà con i suoi vivacissimi raggi [<264-265>] quelle ombre straniere, che potessero insorgere per denigrarle. Pieno di questa fiducia auguro alla M. V. il possesso perpetuo della felicità e della gloria, che col corso non mai interrotto delle sue meravigliose operazioni ha così ben conseguito ». Sino a qui il doge; ed avendo il re corrisposto con esprimere la soddisfazione che provava per la sua perfetta riconciliazione con la Repubblica, e che era pronto di farle provare nelle occorrenze tutta la stima ed amicizia che aveva per essa, diede commiato al doge e ai senatori, i quali furono dalla regia generosità in appresso onorati con nobili regali, che vennero loro presentati con gentilissime espressioni, fatte a nome di S. M. dall'introdduttore degli ambasciatori. Il doge fu presentato di un ritratto del re fregiato di grossi diamanti di 1500 doppie di valore, e di due apparati di tapezzerie all'uso di Fiandra, tessuti con vaga mescolanza d'oro, di seta e di lana, ne' quali apparati erano rappresentate le deliziose prospettive dei giardini reali. Ciascheduno de' senatori ebbe pure un ritratto del re guarnito di diamanti, ed un apparato di tapezzerie; e Nicolò Maria Queirazza, il quale durante la permanenza del doge in Parigi aveva fatto figura di suo segretario, fu dal re onorato di una catena d'oro del valore di duecento doppie; siccome un'altra simile n'ebbe poi al congedarsi dalla corte, avendo il re con questo doppio onore voluto guiderdonare l'attenzione ed il zelo, che il medesimo Queirazza aveva mostrato in promuovere il trattato di pace. In seguito delle sopradette cose [<265-266>] rimanendo in Parigi a continuare la sua funzione d'inviato della Repubblica il marchese Paolo De Marini, il doge ed i senatori, dopo essersi congedati dai principi e principesse della casa reale e del sangue, partirono, e passati in Provenza, quivi preso l'imbarco sopra due galee della Repubblica arrivarono il giorno 19 di Giugno in Genova.




1 F. Casoni, Storia del bombardamento di Genova nell'anno MDCLXXXIV. Libro inedito degli annali di Filippo Casoni, a cura di A. Neri (Genova, Tipografia del R. Istituto Sordo-Muti, 1877), pp. 257-266 Link esterno Internet Archive; scheda bibliografica Link esterno OPAC SBN.



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