Urania Ligustica

Delizie in villa

Giambattista Bisso

Introduzione alla volgar poesia (1755)

Delizie in villa


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     IV. La quarta maniera di bene imitare sarà il servirci de' soli sentimenti dell'Autore, cambiandone a modo nostro le parole, e le Rime: Per esempio il Filicaja nella Canzone, che incomincia Re grande &c. St. 14 avea detto di Giovanni III Re di Polonia:

................... Te chiama solo,
Te sospira il Giordano: a te sol chiede
La Galilea mercede:
A te Betlemme, a te Sion si prostra,
E piange, e prega, e il servo piè ti mostra.

     E il P. Pastorini nel Sonetto Or che di Tracia &c. adatta il medesimo sentimento, ma con altre non men leggiadre parole a Clemente XI così:

A te Sion cattiva i lumi gira,
   E ti mostra in Catene, e collo, e mani.
   Fin di Cristo il Sepolcro in man de' Cani
   A te si volge, e libertà sospira.

     V. Potete inoltre di qualche componimento imitarne il solo principio, e poi proseguirlo da voi medesimo, così quel primo Quadernario del Son. VI del Fr. Cerasola della Compagnia di Gesù, che dice: [<102-103>]

O tempo, o tu, che infaticabil voli.
   E pur così di rado, o mai riporti,
   Del piacere i momenti, e se li porti,
   Rapidissimamente ancor gl'involi:
Deh porta presto il dì &c.

     Fu imitato da un altro principio d'un Sonetto del Petrarca:

O tempo, o Ciel volubil, che fuggendo
   Inganni i ciechi, e miseri Mortali;
   O dì veloci più, che vento, e strali,
   Or ab esperto vostre frodi intendo:
Ma scuso Voi &c.

     VI. Al contrario potrete alle volte imitarne la sola Chiusa, come fece il medesimo Cerasola nella Chiusa del Son. 253 in lode di S. Luigi Gonzaga, che incomincia All'Angelico volto &c. e finisce col seguente Terzetto imitato dal Petrarca Son. 293 Quel, che d'odore &c.

Molto l'Eroe, ch'or tanto ammiriam nui,
   Roma ammirò, poco 'l godé: che il Cielo
   Tosto il rivolle; e cosa era da lui.

     Udite ora la Chiusa del Petrarca:

Pieno ora 'l Mondo de' suo' onor perfetti,
   Allor che DIO per adornare il Cielo,
   La si ritorse; e cosa era da lui.

     Così il Filicaja chiude il Sonetto: Giunto quel Grande &c. con questo Verso:

In pene sì, ma in servitù non mai.

     E in simil maniera vien chiuso dal P. Pastorini quell'altro Sonetto Genova mia &c.

Ruine sì, ma servitù non mai. 1



     In oltre il P. Pastorini in morte di Manfredi celebre Mattematico amplificò, e migliorò l'anzidetto sentimento di teocrito col seguente Sonetto:

Vidi 'l gentile albergo, ove solea
   Starsi Manfredi a sue bell'opre intento:
[<107-108>]
   Ma ciò, che fu diletto, era tormento,
   E spento Lui, nulla di vago avea.
Ogni specchio ond'il fuoco ei già traea,
   Umile vidi ad abbruciar più lento.
   E de canori legni il bel concento
   Un tenero lamento a me rendea.
Cieco vidi ogni vetro, e le sue carte
   Fuggir la luce, e con quest'occhi ho scorto
   Lagrimar la Natura, e pianger l'Arte.
Ogni cosa sentia di morte il torto:
   E se in questa lo mirava, o in quella parte,
   Ogni parte dicea: Manfredi è morto.
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     Imparate ora da un Sonetto, che soggiungo del Padre Pastorini, come possa lavorarsi un Componimento sovra una sentenza di un S. Padre, com'è quella soavissima riflessione di S. Agostino, che dice:

Quid tibi sum ipse, ut amari jubeas a me:
&, nisi faciam, mineris ingentes miserias?
Parva ne est ipsa miseria, si te non amem?

Deh chi son io, Signor, che mi chiedete,
   Quasi che giovi a Voi, l'affetto mio!
   Voi di Voi degno, il vostro amor godete,
   Né sembrate maggior, se v'amo anch'io.
Eppur tanto di me geloso siete,
   Che se altrove rivolga un sol desio,
   Lo sdegno armate, e guerra mi movete,
   Né par senza di me felice un Dio.
Ma troppo torto al vostro amor saria
   Per chi non v'ama d'altre pene armarvi,
   Stimando il non amar pena men ria.
Se il vostro amor cosa mortal non parvi,
   Spegnete, o Padre, il vostro inferno, e sia
   Pena di chi non v'ama il non amarvi.
3



     Udite ora per vostra istruzione qualche altro esempio di buona, e fedele Traduzione. E primieramente voglio proporvi un Epigramma composto da Fabio Benvoglienti in Versi Esametri, e Pentametri Italiani, non più ora usati, trasportato dal Greco, in cui lo compose Anacreonte.

Mentre da' dolci favi fura del mel dolce Cupido,
    Volta al Ladro un'Ape pugne la bella mano.
Subito percuote per acerbo dolore la terra,
    E doglioso, ed acro corre alla Madre sua.
[<124-125>]
Mostrale piangendo, come crudelmente feriva
    Quella Ape, quanto empia, e piccola fiera sia.
Venere dolce ride; dice Venere: guardati Amore:
    Picciolo quanto sei, quanta ferita fai!

     Osservate però con quanta maggior grazia fu tradotta la medesima favoletta di Anacreonte dal P. Pastorini col Sonetto, che siegue:

Stanco di tender l'arco il fier Cupido,
   O di far tante piaghe un dì pentito,
   Solingo errava in Orticel fiorito,
   Ove l'Api dorate han dolce nido.
A la preda d'un favo il Dio di Gnido
   Stende la man furtiva, ed ecco un dito
   Gli punge Ape rabbioso: end'ei ferito
   Batte il suol, scuote i vanni, e manda un grido:
Vola a Ciprigna, e grida: o Madre Dea,
   Ve', quanto, ve', piccola Vespa impiaga!
   E pianto amaro in così dir spargea.
La Madre allor ridendo: Amor ti appaga,
   Né ti doler de l'Ape, a lui dicea:
   Tu pur piccolo sei, ma fai gran piaga.

     Un Idillio latino del P. Tommaso Ceva della Compagnia di Gesù voglio qui soggiungere con la Traduzione del medesimo Pastorini addotta dal Muratori nel secondo Tomo della sua Perfetta Poesia l. 4, pag. 442. [<125-126>]

Fons Delusus.
Idyllium.

Paridi Mariæ Salvago Patricio Genuensi.

I
Fons vitreus de rupe sua descenderat, urnæ
Maternæ impatiens. Neptuni scilicet arva,
Nereidumque domos, & tecta algosa marinæ
Doridos infelix visendi ardebat amore.
I
Non più soffrendo un puro amabil rio
   La sua culla natia d'alpestre sasso:
   Vago di libertà, dal seno uscio
   Della rupe materna, e scese al basso.
   Di cercar l'alto mar cieco desio
   L'invita, e sprona ad affrettare il passo,
   Per mirar di Nettuno i Campi ondosi,
   E delle Dee Marine i tetti algosi.
 
II
Ergo per & scopulos præceps, per & invia saxa,
Perque silentum umbras nemorum noctesque, diesque
Accelerans gressus læto cum murmure, tandem
Avius ille diu quæsita ad litora venit.
II
Dunque per sassi, e per alpine rupi
   Giorno, e notte cammina; e rovinoso
   Precipita per balze, e per dirupi:
   E senza darsi mai pace, o riposo
[<126-127>]
   Fra romiti silenzj orrendi, e cupi
   Corre di selve il torto calle ombroso:
   Finché del Mare alla bramata riva
   Dopo lungo girar, festoso arriva.
 
III
Ah miser! ut longe vidit contermina Coelo
Stagna immensa; & murmur aquæ, ventosque sonantes
Audiit, ut propius raucos timido pede fluctus
Attigit, ut demum lymphæ dedit oscula amaræ;
III
Misero lui! quando col Ciel confine
   Vide l'immenso orribile Elemento;
   E quando alto mugghiar l'onde vicine,
   E rotto udì fischiar fra l'onde il vento;
   E quando le spumose acque marine
   Giunse a toccar con piè sospeso, e lento;
   E quando al salso flutto un bacio ei diede,
   Ben si pentì, ben ritrar volle il piede.
 
IV
Infelix ore averso salsam expuit undam
Illam, perq; genas lacrimæ fluxere; nec ulla
Vi potuit prono latices a gurgite serus
Vertere. Quas non ille Deas terræq; marisq;
Nerinen, glaucamque Thetim, & viridem Amphitriten.
Atque Ephyren surdas Nymphas in vota vocavit!
IV
Quanto potèo, la bocca in dietro volse,
   Quanto potèo, sputò l'amaro flutto,
[<127-128>]
   Quanto potèo, dall'onda il piè rivolse,
   E le guance rigò d'amaro lutto.
   A quante in terra, e in mar Dive si dolse?
   E quante ei ne chiamò, ma senza frutto?
   A Nerina, ed Effira, ad Anfitrite
   Mille voci mandò, ma non udite.
 
V
O Galatea! o nata mari pulcherrima Cypri!
Quam veræ lacrimæ tangunt! o cærula Doris!
O Pater! o pelagi rector, Neptune, tremendi!
Sed querulas voces venti per inane ferebent.
Meu quid agat, quo se vertat, quæ numina poscat?
V
Gridava in suo liguaggio, o Galatea!
   O Ciprigna gentil dal mare uscita,
   Di chi ben piange almo conforto, e Dea!
   O bella Dori, o Re del mare, aita!
   Ma le querele il misero perdea,
   Che per l'aria ogni voce era smarrita,
   Ahi che farà? Verrà di nuovo ai prieghi?
   Ma non sarà, che i fieri Numi ei pieghi.
 
VI
Quod restat morituro, anceps se torquet arena,
Innectitque moras, & eundi obstacula quærit,
Horrisonam hac illac fugitans exterritus undam.
VI
Ciò, che solo può far pria di languire,
   E ciò, che solo al disperato resta,
   Con lenti passi, e tortuose spire
   Va per l'arena, e quanto può, s'arresta.
   Ed intoppi cercando al suo morire
   Di qua di là fugge dall'onda infesta:
[<128-129>]
   Né potendo schivar, che non sia spento,
   Ha per qualche guadagno il morir lento.
 
VII
Quid volui demens? quo me malus impulit error?
Ajebat lacrimans. Nam quid, fævissime prædo,
Exiguus possim deserto in litore rivus,
Inque tuis regnis? simul hæc, simul ora profundi,
Ora procellosi Nerei liquido sale puras.
Inficiens lymphas argentea Nympha subibat.
VII
Stolto che volli? ei dice, e qual m'è nato
   Amor insano, e qual orror m'ha scorto?
   E che può mai, crudo ladron spietato,
   Picciolo rivo, e solo, e mal accorto,
   Nelle tue braccia, e nel tuo regno entrato?
   Mentre così piangea, dal mare absorto
   Mischò col salso umor l'onda d'argento,
   E la vita finì col suo lamento.
 
VIII
Hanc, PARI, necdum etiam nosti? Tua scilicet illa est
Pulcifera, immitis quam glarea cogit in æquor
Contortæ vallis per iter laceram undiq; saxis.
VIII
Questi, Paride mio, che piango, e scrivo,
   Nol conoscete ancor deluso fonte?
   Di Pulcifera nostro è questi il rivo;
   Che sceso dal paterno alpestre monte,
   Quanto lacero più, tanto più vivo,
   Al ligustico mar volge la fronte;
[<129-130>]
   E per l'amena, e flessuosa valle
   Fra ghiaje, e sassi apre a sua morte il calle.
 
IX
Nec prius ærias saltem propioris Arenæ
Interlabi ædes potuit peregrina, nec illis
Deliciis moritura frui, non ardua rura,
Non hinc, atque illinc regalia cernere tecta,
His equidem visis, cursim licet, inclyta Nympha
Æquius interitum, credo, & sua fata tulisset.
IX
Meschin! pria di morir potesse almanco
   I palagi, e le ville in suo viaggio
   Dell'arena mirar, che siede al fianco,
   Per conforto gentil del suo passaggio!
   Certo a perdersi in mare andria più franco.
   Se di tante delizie avesse un saggio;
   E col piacer di sì beata sorte
   Faria dolce il dolor della sua morte.

Qui termina la mirabile, e spiritosa Versione dell'Idilio, benché il Pastorini vi aggiunga del suo altre otto stanze, le quali potranno leggersi da chi n'è vago, presso il Muratori al luogo citato.4




1 G. Bisso, Introduzione alla volgar poesia in due parti divisa (Lucca, V. Giuntini, 1755²), pp. 102-103 Link esterno OPAC SBN e Google libri (per Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).

Non ho potuto verificare la prima edizione (Palermo, F. Valenza, 1749) Link esterno OPAC SBN.

2 Bisso (1755²), pp. 107-108 Link esterno Google libri.

Il sonetto si riferisce a Manfredo Settala (1600-1680) Link esterno Storia di Milano, non a uno dei fratelli Manfredi, entrambi scomparsi dopo padre Pastorini!

Si ricorda la critica di: G. Baretti, [Recensione di] "Introduzione alla volgar poesia in due parti divisa dal P. Giambattista Bissi Palermitano. Prima edizione veneta accresciuta e migliorata. In Venezia 1762 per Giambattista Indrich in 8°", La frusta letteraria, n. 10 (Roveredo, 15 febbraio 1764); il brano è qui trascritto dall'edizione La frusta letteraria di Aristarco Scannabue, a cura di L. Piccioni, vol. 2 (Bari, G. Laterza e figli, 1932), p. _12_.

3 Bisso (1755²), p. 113 Link esterno Google libri.

4 Bisso (1755²), pp. 124-130 Link esterno Google libri.

Si rimanda all'edizione, in Urania Ligustica, de Il Fonte deluso.



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